Primo giorno – Venerdì 11 agosto
Arrivare al Sziget molte volte è un’esperienza tanto quanto il festival stesso: leggende narrano di gruppi che si incontrano all’aeroporto, karaoke improvvisati al gate, amori che nascono al terminal e finiscono in cabina. Io, anche quest’anno come nel 2019 decido di giungere a destinazione in auto, sfruttando la posizione di partenza e alcune necessità logistiche.
Tutto il festival è concentrato in un’isola del Danubio, Obudai, in una zona abbastanza periferica di Budapest. L’accesso a piedi è unico, il ponte K, e in quei giorni tutte le strade lì intorno sono interdette al traffico.
Arrivare con la macchina direttamente all’isola è quindi sconsigliato: i parcheggi sono pochi, cari e lontani. Ma quest’anno in un atto di estrema borghesia decidiamo (io e i miei compagni di merende) di affittare una casa nel cuore di Budapest a soli 20 minuti di trenino (o 15 di monopattino) dall’ingresso festival, evitando a priori la problematica parcheggio.
Così come la problematica sonno, che ben conosce chi decide di campeggiare direttamente nell’isola. Sziget, come gran parte dei festival, dà la possibilità agli spettatori di piantare liberamente la tenda nelle zone consentite e di dormire direttamente a due passi dalle venue dove si balla a tarda notte (naturalmente ci sono servizi di campeggio diversificati, con pass VIP, glamping e servizi dedicati per le persone con disabilità). Che sarà fico, sarà autentico, ma è pure di una scomodità rara, con la musica che non ti esce dalle orecchie, la terra azzeccata alla pelle e il sole che ti sveglia già verso le 8.
Un’esperienza da vivere, se avete il fisico. Cosa che io e i miei amici non abbiamo da anni, consapevoli dei nostri limiti ma su un comodo materasso (Prezzo dell’appartamento: 620€ per 4 notti per 4 persone. Difficilmente ci ospiteranno di nuovo visto che al momento del check out la casa sembrava il Donbass).
Dopo aver preso possesso dell’alloggio andiamo verso l’isola con un trenino di sovietica puntualità ma di romano affollamento, ritiriamo il pass e passiamo i controlli di sicurezza, mai come quest’anno di una morbidezza infinità. Entrare a Obudai è sempre emozionante: una fiumana di persone si riversa nell’isola ad ogni ora, dei pannelli ai lati che danno il benvenuto in tutte le lingue, la musica che si comincia a sentire in sottofondo e la smania di vivere avventure nuove.
Emozionante ma anche straniante: prendere le misure, pur conoscendo bene la location, e sempre difficile, perdersi è un attimo, camminare una costante. La soluzione, da sobri adulti risoluti e razionali non può che essere una: birra, passeggiata, altra birra e da qualche parte si arriverà.
E come ogni festival che si rispetti, c’è un cuore, un polo attrattore che risucchia tutti gli appuntamenti, le bevute, le attese e le sfattonate: è il Main Stage dedicato a Dan Panaitescu, un gigantesco spiazzo capace di ospitare quasi centomila persone, mai come quest’anno ricoperto dal prato verde (i primi giorni, a ferragosto sembrava Roland Garros).
Arriviamo al Main Stage verso le 19.00, in tempo per sentire attaccare Yungblud, icona rock ‘n roll della generazione Z. L’artista britannico sul palco si sbatte un casino, sciorinando le canzoni più celebri (“Loner”, “The Funeral”) e i nuovi singoli come “Lowlife”, fomentando anche i millenial e dimostrando che la musica, se buona, spacca le fasce generazionali (che poi il sound di Yungblud sia molto più vicino al britpop che agli stilemi degli anni 20 è un altro discorso, ma d’altra parte quanto era bello il britpop?)
Il tempo di salire con la gradazione alcolica con dei buonissimi whisky & cola (versione doppia, altrimenti è solo coca – cola. Costo medio sui 12-14€) e di mettere sotto i denti qualcosa di costosissimo e immangiabile (il cibo forse unica nota stonata dell’edizione: roba al gusto catrame al prezzo di Villa Crespi) ed ecco che attacca Dan Reynolds con la sua voce inconfondibile.
21.15 spaccate e si comincia a gridare al concerto degli Imagine Dragons. La band di Las Vegas non ha bisogno di presentazioni, di certo non delle mie, e dal vivo conferma la vitalità e la forza che sprigiona nelle hit radiofoniche. Un concerto vigoroso ma poco suonato, ingessato nella perfezione formale delle basi. Bello, ma non ci vivrei.
Però quando poi parte “On Top of the World”, “Believer”, “Whatever It Takes” o “Natural” ma come fai a non scaldarti e a cantare a squarciagola? E allora partono gli abbracci, i brindisi, le risate e le chiacchiere sconclusionate in un inglese che già c’ho difficoltà quando lo parlo a lavoro figuriamoci dopo sei cocktail.
È il clima dello Sziget, simile, per chi c’è stato, a quello dell’Erasmus, dove è tutto una scoperta, tutti sono amici, tutto è bello. E tutto comincia a diventare poco definito nei contorni, mentre gli Imagine Dragons chiudono con “Radioactive” e “Walking the fire” o almeno così mi sembra.
Sono passate neanche 5 ore dal mio ingresso e mi sembra di essere molto più prostrato di gente che sta nell’isola dal giorno prima (quando sul Main Stage suonava Florence + The Machine): quale migliore occasione per continuare a imbenzinarsi al Ticketswap Colosseum!
Il Colosseum è un’enorme arena fatta con 3.000 pallet dentro la quale moderni gladiatori sfidano le leggi della fisica dimenandosi dalle 2 del pomeriggio fino alle prime luci dell’alba. Lo stile è elettronico, la regola è ballare come se non ci fosse un domani, lo smascellamento non è escluso.
Ci passiamo verso le 23.30, aumentando considerevolmente il numero dei passi giornalieri (saranno 32mila al ritorno a casa) e scoprendo la psyco-trance meditativa di Dj Gigola, che ci intriga ma non ci risveglia. Il tempo di trovare il bar più caro dell’isola (dove torneremo tutta la settimana, essendo anche il più comodo) e ci dirigiamo all’ultima tappa della serata, il FreeDome by Mastercard, dove Jamie XX sta facendo il fuoco.
Il FreeDome è un enorme tensostruttura dietro al Main Stage, proprio sulla via dell’uscita. Da fuori ricorda un circo ma da dentro è molto più divertente: è lo stage dell’elettronica ricercata e dei gruppi pesanti ma non di grido, gente che comunque quelle 20mila persone le mette sempre insieme.
Jamie XX è proprio esponente tipico dell’elettronica di livello: elaborata, mistica, complessa e misteriosa. Dopo aver fatto il botto nel 2010 remixando “NY Is Killing Me” e dopo una serie di successi non indifferenti era un po’ latitato fino al lockdown, quando sul canale youtube sono uscite due nuove tracce bestiali. Il set che propone non è una bomba, ma è comunque una meraviglia, profumo di club londinese e puzza di sudore.
Un altro cocktail, qualche movimento sempre meno coordinato, due note di Yuné Pink che attacca col suo dj set e alle 2.30 siamo fuori dall’isola direzione letto comodo. Con la promessa che l’indomani saremo più frizzanti, e la consapevolezza che non ci riusciremo.